Parnaso Italiano
Repertorio della poesia italiana tra Cinquecento e Seicento
Repertorio della poesia italiana tra Cinquecento e Seicento
Giovan Battista Bertanni [1595ca - ?]
Epistole amorose [1645]
Epistole amorose [1645]
II
Risposta di Circia a Triario.
Risposta di Circia a Triario.
S’io potessi negarti,
e nasconder la fiamma che porto nel mio petto, per la bella cagion degli occhi tuoi, non lo farei potendo, non lo vorrei sapendo; ché dove giunge da dovero Amore vuol tutta l’alma ed obligato il core. E giuro per quel giorno che fu il primo ch’in braccio mi moristi languendo, giuro per le dolcezze che provò Circia a la tua bocca appresso, che dentro al petto mio alberghi solo tu, folle, e non io. Sallo il ciel, sallo Amore, sallo il fido mio core. O dio, dunque t’adoro; né viver senza te posso, o mio bene; e tu da me partito ti chiami esser tradito? Tu piangi, e tu sospiri, ti disperi contento, e con fiero lamento, tra duri affanni e pene in duolo eterno, ti alimenti un inferno. Ah, che negar non puoi di posseder del cor, de l’alma mia la maggior parte; e se languir vorrai, da un’amorosa furia lacerato, dirò che tu lo fai per esser meco del tuo amor cangiato. E se dagli umidi occhi quel pianto che tu sgorghi è d’amoroso ardore, dirò che nel tuo petto regna crudele e non pietoso affetto. Sai pur se al nascer mio toccò stella mendica, e ch’il cibo non merca o no ’l prescive, poco per sé, poco per altri vive. Il dolce guardo amato può far un cor beato, ricompensa amorosa può dar l’alma gioiosa, e da bocca gradita prende ogni spirto afflitto anima e vita; ma non si vide mai ch’un amante fedele de l’ambrosia d’amor vivo si vanti senza Cerere amica; e se d’amor divino v’è forse chi non cura, senza il frutto di spica almen non dura. Ed io che, per serbarti con franca sicurtà di me signore, armo il fianco ed il petto di dura sofferenza, e con fortuna fida soffro di rimirar vecchio sembiante, infedel mi rappelli ed incostante? Dunque morta mi brami, se per oro mercar merco me stessa? Tu ti sdegni e t’adiri, né la mia povertà punto rimiri? L’oro fa che si goda con umano piacer ogni contento; e chi l’oro possiede, quasi idolo adorato, vien da tutti ammirato. L’oro vince et abbatte le città, le provincie e tutti i regni; né di tagliente ferro curando i colpi, o l’incolpato ardire la mano essecutrice per comando del core espone quello, accetta questo, e china gli attribuisce onore. La brama d’oro a lunghi stenti invita ogni salma mortale; né per quel posseder avien che mai si rimiri a la vita, ben che affannata e trista, pur che l’oro s’acquista; anzi, contro quel don, ch’è di natura, né punto libertate o morte cura. Per questo anch’io, scontenta, ne la mia povertà piango e sospiro. Ma dopo che la sorte prese con libertà l’aurato strale del picciol dio di Gnido, e punse il ricco vecchio per farmi fortunata, vorrai che questa sorte or sia da me sprezzata? Lo stringo, è vero, in braccio, e con donati baci lusingandolo ardita, mi dichiaro trascorsa, ma per votargli a mio voler la borsa. E pongo nel piacergli ogni possanza per cavargli de l’oro in abbondanza; e quante volte in seno manierosa l’alletto a’ lascivi piaceri, allor sovente quel che dice la bocca il cor ne mente; e quando può la lingua nel seren del mio viso esprimerle, ben mio, e chiamarlo cantando tra pause e tra sospir il mio tesoro, lo faccio tutta intenta perché egli suoni con le corde d’oro. E negli affanni miei, che unita provo a quella fredda bocca, sento questo contento ch’aspetto d’avanzar l’oro e l’argento. Ma se da me si parte, pongo di tosto gli occhi a quel metal che mi donò ridente, e cader lascio in fortunato oblio quel vecchio, e dico a l’oro: — Tu sei solo il mio ben, l’idolo mio. — Nel gran regno d’Amore come prova un inferno la donna possedutta se il possessor non cura, così prende diletto baciando del suo vago caro il viso, dono del paradiso. Né tra dolci desiri di bocche innamorate si può sentir martìri o voci non lodate; né da cori contenti nascono risse o noie; ma tra sospiri e languidi lamenti inconsolabil gioie. E se da l’una l’altro si divide, non si partono l’alme: ma solo il dipartire si chiama aspro martìre. Io lo provo che t’amo e tu no ’l credi, o crudo, e tu non pensi ch’io sia senza di te, senza il mio bene in così amare pene. Se ne la gioventù l’oro non merco, forse sperar degg’io di possederlo in mia canuta etate, quando piange ogni donna in poverella gonna sua perduta beltate? Folle chi pon sua speme nel verno di vecchiezza, poiché l’ostro vivace e ’l candido del volto colto dal ladro alato fa ch’ogni altra vaghezza cada; e sepolto il gioco e tolto il riso tra i solchi de le guancie, non più si mira, no, quel volto arato, ch’ha il crine tempestato. Anzi donna canuta, trofeo del Tempo, in grembo degli amanti quanto è più carca d’anni, tanto è bersaglio di sofferti inganni. Chi ha perduta beltà, seco è spartita la contentezza di sua lieta vita; donna ch’il fior non ha di giovinezza, non ha più di piacer troppa fermezza. E tu, mentre ti affanni del mio avanzo de l’oro, non vedi e non ti curi d’affissarti nel brutto di mia sera, ma solo miri e adori il fiorito mattin de la mia etate con tua poca pietate. Prima ch’il mio ligustro languisca nel suo senno e la rosa vermiglia smarrisca nel mio volto, godi che, a l’oro intenta, bacio ed abbraccio il vecchio; se ben porto nel petto il cor doglioso per trovar ne’ miei dì dolce riposo. Il tempo troppo fugge, e fugge anco l’etate, e chi non pensa al suo fuggir fugace, non trova poscia la gradita pace. Dunque non isdegnar ch’oro procaccia costei, ch’è tutta tua, sin che può dar, in cambio di richezze, baci lascivi e ambrosia di dolcezze. Ma non per questo intendo d’abbandonarti mai, idolo mio; che se il metal di Mida libera posseder mi fosse in sorte, porrei quello in non cale, più tosto che lasciarti, o mio tesoro, che più stimo de l’oro. Ma sappi che quel nettare amoroso, che qual ape ingegnosa succhio da la tua bocca, se mi nutrisce l’alma, non mi può mantener, senza altra aita, per troppo tempo in vita. Cari vezzi e lusinghe, accorte parolette, diletti e contentezze, sono d’aria amorosa zefiretti soavi, che spirando lascivi allettano gli amanti; ma di poi vòto il ventre di cibo, che tiene in vita il core, cade ardir, cade amore. Chi compra ciance e fole nebbie ed ombre restringe, e quanto avaro è più, nulla possiede, ché battendo quel nulla, nulla vede. Dunque vieni; che tardi? Vieni, che mi vedrai portar per tua cagion nel petto afflitto un Mongibello ed un Etna spirante con le fiamme di amante. Vieni, caro conforto di chi ti scrive e chi ti prega ardita, ché tu solo, e non altri, sei quel ben che desio, quel ben che adoro, senza cui, lagrimosa, oimè, mi accoro. E se baci e lusinghe potrò ne l’altrui bocca cortese dispensar, credi ch’i tuoi saranno baci cari, lusinghe vere, e di amorosa gioia parti certo distinti dagli altri, tutti finti. Ove la donna audace spende parole e vende sua beltate per interesse solo, e non d’amore, fa che parli la lingua, e non il core; ed ove ella non cura che abbracciar il suo vago, ogni voce, ogni sguardo, ogni diletto è dolce figlio del suo caldo affetto. A te, che sei quel bene unico di quest’alma, possessor fortunato, tutta sola si serba costei, tutta s’adorna per farti del suo seno altar pietoso, come idolo terren del suo riposo. Non tardar la venuta, non intigrir cotanto verso chi t’ama tanto. E se cosa t’arresta in me negata, che tolerar non puoi, vieni, che se son tua sarà tuo quel che vuoi. Ché al fin, tra lieti amanti, non si conosce errore quando è perfetto amore. | 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 110 115 120 125 130 135 140 145 150 155 160 165 170 175 180 185 190 195 200 205 210 215 220 225 230 235 240 245 250 255 260 |
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