Parnaso Italiano
Repertorio della poesia italiana tra Cinquecento e Seicento
Repertorio della poesia italiana tra Cinquecento e Seicento
Alfonso Antonini [1584 - 1657]
Da “Rime” [1615]
Da “Rime” [1615]
LXXXIX
Sfoga il suo ardor amoroso in persona d’un pastore.
Sfoga il suo ardor amoroso in persona d’un pastore.
Già per l’ombrosa falda,
che l’orizonte serra, ritornava del sol la bella aralda dal confin de la terra a rilegar ne l’oceàn le stelle, quando, la schiera imbelle cacciando a la campagna, ove ’l bosco fiorisce e ’l suol verdeggia, Selvaggio, che d’Amor sempre si lagna, mentre pascea la greggia, sfogò l’ardor che gli pascea ne le vene al mesto suon de le soavi avene. — Non arse mai (dicea) tanto il feroce dio ch’appo la bella inamorata dea, pien di vago desio, mentre nuotava in mar de le dolcezze, con l’amate bellezze fu ne la rete preso; né ’l greco fiume, che’l gran corso tenta, e che, a seguir la fuggitiva inteso, italico diventa, e bagna i piedi al favoloso monte a cui d’eterne fiamme arde la fronte; non fu mai sì ferito per la sua bella amata il vincitor di Lerna e di Cocito, non quel che l’onda irata sfortunato solcando appresso Abido, sovra l’ondoso lido lasciò l’ossa insepolte; né la feroce colca incantatrice, che, con le chiome lacere e disciolte, a la prole infelice, in cui sfogar l’orribil sdegno volse, prima diede la vita, e poi la tolse, quant’io per la mia cruda pastorella gentile, benché di fregi e di ricchezze ignuda, inornata et umìle, povera sì, ma di beltà divina. Povertà pellegrina, fortunata sfortuna, ove de le ricchezze di Natura sol per pompa del ciel s’orna Fortuna; ricchezza altra non cura, se non che ignuda è di pietate, ahi lasso, et ha le chiome d’oro e ’l cor di sasso. Per lei geme il mio core, pien di piaghe e d’arsure, incenerito martire d’Amore. Per lei sì gravi cure, per lei tanti tormenti e tante doglie miseramente accoglie tra sì penosa sorte la mia cadente e semiviva vita, che risvegliar la sonnecchiosa Morte bramo con mano ardita; e precorrer così spesso desio con magnanimo fatto il fato mio. Pur mi ritien speranza d’intenerirla un giorno; né di tante ruine altro m’avanza. O che bel suono adorno, o che soavi e dilettosi metri alor verrà che impetri da la mia nobil Musa, se di tanta ventura ho ’l ciel cortese, ch’or l’ire e l’armi è di spiegar tant’usa, e le superbe offese, che convien che d’orgoglio anch’ella s’armi, e che sien del mio duol tragici i carmi. Voi, fiammeggiante e bella squadra de’ campi eterni, disacerbate, o stelle, la mia stella, sì che i lamenti interni omai lasciando, e i flebili sospiri, al suon de’ suoi respiri faccia gioir le selve il lagrimoso e misero Selvaggio. Pregate voi la bella fera, o belve, ch’apra tranquillo il raggio a ricrearmi d’un bel guardo solo, e che di tanto duolo abbia omai duolo. — Così Selvaggio disse; e, mentre egli cantava il proprio pianto, piangean le selve al suo pietoso canto. | 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 |
poesialirica.it - gennaio 2008 - Ideazione e realizzazione a cura di admin@poesialirica.it