Parnaso Italiano
Repertorio della poesia italiana tra Cinquecento e Seicento
Repertorio della poesia italiana tra Cinquecento e Seicento
Francesco Ellio [? - XVII sec.]
Da “Gl’idilli di diversi ingegni illustri del secol nostro” di AA. VV. [1618]
Da “Gl’idilli di diversi ingegni illustri del secol nostro” di AA. VV. [1618]
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La rugiada.
La rugiada.
— Mira, Roscida, mira,
come vezzosa imbianchi il solito sentiero al nuovo sole, et il suo biondo crine, sovra il Gange spiegando, e felice e sereno n’apra l’Aurora in Oriente il giorno. Qual si vide giamai di Tiro o di Sidone preziosa murice di questa bella dea uguagliar nel color l’umide rose? Nelle tue guancie solo, alba che squarci il tenebroso velo dell’amorose pene all’afflitto mio core, Roscida, avvien ch’io vegga emulo a lor fiorir natio cinabro. O come ben l’erbette di mille e mille gemme vaghe rendi, e lucenti delle rugiade il liquido cristallo, da cui tran esse e nutrimento e vita. Care e dilette goccie, che a noi dal ciel cadendo venite a fecondar l’antica madre, che senza voi sarebbe da’ raggi omai del sole arsa e distrutta, ben è ragion che se già pria vi trasse e dagli occhi e dal core dell’amorosa dea pietoso affetto ver’ l’amata sua figlia, voi, anco imitatrici della di lei pietade, a noi, che per lei sola e viviamo e cresciamo, siate propizie in mantenere il vitto. Voi nasceste di pianto, e pur ai prati, ai semi, nel cader vostro, ognor destate il riso. Tu forsi mai quanto fu questa, o ninfa, di cui parlo e contemplo, sì piacevole ancora altra istoria ascoltasti; or, se diletto hai d’udirla, dirolla. Ma pria, di questo mirto sotto l’opache frondi sedianci uniti entrambi, dov’altre volte pure sui matutini albori, ape d’Amor vagante, meco avvinta suggesti dalle cime de’ fior manne celesti. Ne’ più remoti campi dell’Assiria felice, di Nino antica reggia, alla cui monarchia soggiacquero già vinti co’ Persi il Medo, il Battriano, e ’l Scita, alle radici a punto del Libano, pregnante di tali e tanti odori, che invidiar non ne può l’onda sabea, terra ricca e beata di semplici cultori, di festosi pastori, e più di cielo amico, spiega fiorito et odorato lembo. Da se stessa ivi suole mantenersi lasciva eterna Primavera, e l’istessa Ciprigna, dell’altro sole in vece, con più benigno e temperato raggio il suo calor gl’infonde. Dovunque il piè leggiadro posa la dea ridente in su ’l fiorito prato, si veggono spuntar gigli e viole; dovunque e guata e spira, l’aura d’Amor ferisce, l’aura che, mormorando accolta in bei respiri, corre subitamente per le cime de’ cedri e degli allori ad infiammar di quell’ardor gli augelli. O quante volte ella di balzo in balzo per quelle verdi rive seguì pargoleggiando il suo cor, la sua vita, il suo diletto Adone, mentre, alle caccie intento, col corno e con la voce egli incitar godea dietro al cervo leggier l’aspro molosso. O quante volte, o quante nel suo grembo l’accolse stanco anelante e molle de’ sparti suoi sudori, e dal dorato crine, con mano innamorata, scosse l’invida polve, che, per entro fraposta, quasi parea volesse in giovenil età farlo canuto. Ma poi che del garzone il mentito cinghiale fe’ scempio dispietato, dal grave duol conquisa la dea pietosa, il riso in essilio mandando, preda si fe’ d’un sempiterno lutto; non tanto il bel perduto amato amante, quanto il crudel destino d’Amimone sua figlia, d’Amimone la bella, piangendo lassa e lacrimando in vano, che da Nettuno amata e dal padre Lieo era all’insidie lor ben degna mèta. Su le rive del fonte cui Biblide poc’anzi dato avea, fugitiva dal fraterno furor, l’esser e ’l nome, la dea figlia del mar, la dea più bella, Adone, il caro amante di questa giovinetta, segno evidente del suo amor, fe’ padre; in cui mesta mirando, et in essa scorgendo, del genitor estinto effigiata la verace imago, temprar talor solea con qualche stilla d’allegrezza il duolo della sua vedovezza. Venne a sorte veduta questa vaga fanciulla dal generoso dio che da Semele audace fu in Tebe aborto, partorito a Giove, mentre su ’l carro trionfale assiso, tutto di spoglie onusto, tornava glorioso dalla vittoria altera che in poco spazio riportò degl’Indi. Mirolla, e ’l core, acceso dall’animata face de’ suoi tremuli lumi, sentì tantosto incenerirsi in seno. D’Amor dunque cattivo, disse ai satiri, vòlto in stupida sembianza: «Fermate, oimè, fermate, cari e fidi compagni, il piè veloce; ecco, ecco Citerea, che dalla terza sfera scesa su questo monte ha sciolto il cinto, quel sì mirabil cinto che, del suo figlio Amore i piaceri mostrando, insidioso in sé cela le pene. O se pur non è dessa, della beltà materna qualche sua figlia a noi dimostra il vivo». Non meno, in grembo all’acque, all’incontro fervente della vergine ardea colui cui diede il fato le procelle acquetar, frenar i venti, colui che col tridente all’immenso oceàno e freno e legge ad un sol cenno impone. Or che far dêe confusa l’afflitta genitrice? Quinci il fastoso nume che pria piantò la vite, onde il vino ne trasse, farmaco solo alle gravose menti, insta, prega, richiama; quindi il padre Nettuno al suo voler s’oppone, e nasce al fin tra loro, in arringo d’Amor, pugna di Marte. Sta dubbiosa Ericina, che, pesato ugualmente dell’un e l’altro il merto, in tutto il trova pari. Solo per chieder ambo dunque l’amato pegno, e l’un e l’altro ne riman fraudato. Più volte, al carro aggionte le pennute corsiere, le candide colombe, pallida in vista, addolorata in atto, ne va la dea veloce, e con lacrime amare tenta pur affrenar gl’impeti e l’ire, e por d’accordo insieme della fanciulla i duo superbi proci. Or su ’l lido sonante de’ maritimi flutti, ove vide una volta, emulo ai raggi suoi, Febo nascente il suo dorato crin sorger dall’onde, agli amorosi augelli raccoglier fa precipitosa i vanni, e ’l dio ceruleo punto d’invitar non desiste alla bramata pace, e prega, e piange. Ora l’amenità posta in oblio del Libano frondoso, suo caro dianzi e placido soggiorno, per ritrovar Lieo ripigliar falle in altra parte il volo; a cui fattesi incontro le due rabbiose tigri, con la tenera man fermar non teme, e con longhi sospiri e con singulti interni prova se nel suo petto destar può di pietà qualche scintilla. Ma là dove la face agita furioso l’altro suo figlio, il faretrato arciero, poco ponno di lei pianti e parole, né basta, imbelle e sola, di duo numi feroci quetar gli sdegni ed amicarli in pace. Misera, or che far deve? Altro non può che, lacrimando solo, il nitido alabastro delle sue belle gote intepidir d’un lucido rigagno. Piange, piange Ciprigna, piange d’amor la dea, e, seco ancor a gara, della sua gran sventura piangono gli Elementi e la Natura. In ripa all’onde assisa di Biblide, che ancora con rauco mormorio, stesa il lubrico passo infra rose e viole, parea del caso suo mesta dolersi, del suo Libano al piede solinga si giacea, passando sempre i giorni in pianto e l’ore. Tre volte il suo splendore, tolto di Teti al sen, l’aureo pianeta, face dell’universo, a noi fe’ lampeggiar dall’oriente, tre volte la sua morte, onorando la Notte, gran regina dell’ombre, fece all’aria vestir lugubre il manto, pria che, cessato alquanto quell’interno dolore, ella dai dolci lumi restasse di versar tepide piogge; di cui lucide e molli non pur eran le porte, e la magion aurata e ’l prato istesso, ma dell’umor crescente a poco a poco ogn’or gonfiato il rio, parea baciar volesse le più distanti a lui fiorite sponde. Quando ecco, ignudo a punto, che ai fiori e l’erbe in mezzo scherzando se ne stava, posto l’arco da canto, l’arco picciol e lieve, unico domator d’uomini e dèi, a lei ne vien Amore; Amor che cieco essendo, s’avvien che ai cori altrui dirizzi il fero strale, apre subito in lor piaga mortale. Egli la madre scorta starsi dal dolor vinta, spargendo amaramente lacrime da’ begli occhi a cento, a mille, in un tosto raccolte quelle perle cadenti, qual di cultor agreste imitator giocoso, ricco ne fece seminando il suolo. Et (o chi ’l crederia?) meraviglia infinita, ecco, di quella asperso immantinente il prato, produr vede le rose sovra il lor verde stelo, in men ch’io dir non so nate e cresciute. All’altra parte vòlto, spuntar non men s’accorge viole, acanti, gigli, papaveri, narcisi, e, tra tutti eminente, girar Clizia la faccia al vario troppo et infedel amante. Dallo stupore oppresso, muto si sta gran pezza. Al fin, chiamato a parte di quella meraviglia l’altro degli Amoretti volubil anco e suo germano stuolo, dopo longhe dimore dell’inconsulta torma, per ottimo consiglio fu pur da lei conchiuso esser debito e giusto di Clori il lieve sposo a questa novitade ancor chiamarsi. Ver’ lor donque richiesto, spirando aura soave per volger presto i passi, Zefiro il lusinghiero, che della dea d’Amor segue i vestigi, e di lei nell’albergo prende placidamente delle fatiche sue dolce ristoro di nettare celeste, scote l’umide piume, e senza danno e senza pena arriva al tributario suo ben noto loco. Mossi dal dolce fiato, i semplici virgulti si piegan mollemente, più basso ad abbracciar l’erbe vicine. Ogni arboscel ne gode, la terra si rinveste di candido color, vermiglio e giallo, e s’aprono, bramose esser da lui baciate, anco le rose. Egli all’amica schiera de’ lascivi fratelli vòlto subito il guardo, mira tra ’l gioco e ’l riso la meraviglia a lor pinta nel volto; onde perciò dubbioso saper brama l’origo, né troppo il tien Cupido in quel desio suspeso. Mostrali infra i cespugli le goccie cristalline germogliar quinci e quindi di fior nobil famiglia; mostrali, et in mostrando sparge le lacrimuccie, e di quelle in un punto, mirabilmente nati, viole e gigli accoglie. Vede veracemente, dovunque il prato bagna, quel prezioso umore, ivi vaga e ridente schiera di nuovi fior nata odorosa; vede sì, ma non crede, sì lo stupor l’opprime agli occhi propri il dio. Chiama la bella Clori, l’amata sua consorte, ed ella similmente delle sue ninfe il coro frettolosa conduce a sì raro spettacolo e sì nuovo. Le Driadi le selve, l’Elie con le Napee fonti e paludi, le Nereidi il mar lascian veloci. Dalla felice Arcadia non men presto v’accorre, tutto d’intorno cinto di Fauni, di Silvani, di Satiri saltanti, il semicapro Pan, della zampogna torvo gonfiando l’incerate canne. Vider tutte le stelle in quell’instante vòte della magion superna le beate campagne, e men grave ad Atlante delle sfere rotanti parve l’incomparabil magistero; di lor sola arricchita, dell’alma dea di Cipri trionfava la corte, la corte avventurosa, ove in più dolce suono cantar s’odon i cigni, che su ’l natio Meandro, qualor, e vecchio e stanco, della sua vita sente approssimarsi alcun l’estremo occaso. Al fin piacer cotanto prese la dea, che sendo qual mai sempre di cor tenero e molle, della sua figlia il caso, ancor che acerbo e duro, tosto in oblio mettendo, non puote più versar di pianto stilla. Ma ben Zefiro avendo raccolte in ogni loco quei preziosi et umidetti globi, onde la meraviglia fosse a’ posteri nota, lievemente n’asperse le sue dorate e porporine piume. Quindi poi nasce ch’egli qualor per le colture aride e secche muove soffiando il volo, sempre con quello umor le fa ridenti, qual a punto pur ora questa campagna di veder n’è dato. Delle lacrime altrui, incredibil suggetto, ride dunque la terra, e ben anco vorrebbe la lieta genitrice degli amori in questo modo spesso versar da’ suoi begli occhi lacrime di piacer, non già di duolo. Così le goccie ch’ora fan questo suol fecondo fûr da dolor prodotte. Fûro lacrime, fûro di pianto interno segni, queste che sì lucenti ancor rimiri matutine rugiade, e d’amoroso mèle rugiadoso il tuo nome traesti tu da quelle, Roscida, fior dell’altre pastorelle. — Così su la bell’ora che risvegliando l’alba in su ’l mattin gli adormentati augelli a noi produce il giorno, sotto quasi alle mura della città che tra gl’Insubri è reggia, narrò favoleggiando alla diletta ninfa un pastorello ancora (tranne le selve) a tutt’il mondo ignoto. Indi di lei godendo, si stette in ozio dolce, sinché contro sua voglia si vide richiamar dal sol già nato ben tosto a ricondur gli armenti al prato. 69. se stesso > se stessa. 304. maraviglia > meraviglia; oscillazione. 384. arrichita > arricchita. | 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100 105 110 115 120 125 130 135 140 145 150 155 160 165 170 175 180 185 190 195 200 205 210 215 220 225 230 235 240 245 250 255 260 265 270 275 280 285 290 295 300 305 310 315 320 325 330 335 340 345 350 355 360 365 370 375 380 385 390 395 400 405 410 415 420 425 430 435 440 445 |
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